“Mano con sfera riflettente” (1935), litografia, 31 x 21,3 cm
Seicento anni. Tanto è durata la grande parabola dell’arte fiamminga e olandese nel corso della Storia dell’Arte. Un percorso che si conclude nel pieno Novecento con Maurits Cornelis Escher, incisore enigmatico e visionario, quasi un redivivo Albrecht Dürer catapultato nel relativismo e nella complessità del mondo contemporaneo.
La vita
«È troppo ostinato, troppo filosofico-letterario: al ragazzo mancano vivacità e originalità, è troppo poco artista». Così il giovane Escher veniva definito dai docenti della Scuola di Architettura e Arti Decorative di Haarlem. Un giudizio fin troppo severo. In realtà, seppur l’indiscusso talento nel disegno e l’abilità nel padroneggiare le tecniche dell’incisione fossero evidenti fin dalla gioventù, la sua maturazione artistica fu il frutto di un lungo percorso.
Maurits Cornelis Escher, per gli amici “Mauk”, nacque a Leeuwarden, nei Paesi Bassi, il 17 giugno 1898, ultimogenito di una famiglia numerosa e benestante. Il padre, un ingegnere idraulico, lo voleva perlomeno architetto, ma assecondò comunque la vocazione del figlio.
Un viaggio in Italia nel 1922 cambiò la vita del giovane artista: la Liguria, la Toscana e la Costiera Amalfitana lo colpirono nel profondo e decise di rimanervi. Alto e magro, occhi grandi e penetranti, il ragazzo barbuto aveva un carattere pacato e riflessivo. Nella Penisola trovò presto la donna della sua vita, Giulia Umiker, figlia di un banchiere svizzero, che sposò nel 1924. Dopo il viaggio di nozze in Francia, la coppia si stabilì a Roma, dove nacquero due dei tre figli; qui condussero una vita agiata e stimolante, allietata dalla presenza dei suoceri e di alcuni simpatici amici svizzeri, con i quali Escher effettuava periodicamente alcuni viaggi lungo la Penisola e nel Mediterraneo.
L’avversione al crescente fanatismo politico portò la famiglia a lasciare l’Italia nel 1935, recandosi prima in Svizzera, poi in Belgio, dove nacque il terzo figlio, ed infine nella natia Olanda, nel tranquillo villaggio di Baarn, dove da lì in poi Escher condusse una vita molto riservata, intervallata solo da rari viaggi, come quello ad Istanbul nel 1957. Fu a questo punto che la sua produzione artistica raggiunse la maturità e la notorietà, con opere sempre più complesse e straordinarie, fino alla morte, che lo colse dopo una lunga malattia il 27 marzo 1972.
La formazione e il contesto artistico
Non è facile inquadrare questo artista nel panorama novecentesco, già di per sé molto frammentario. Il suo percorso artistico prese avvio nel calderone dell’Art Nouveau, da cui trasse una base stilistica plastica e decorativa. Egli voleva però indagare nel profondo le forme della natura, inizialmente più nell’ambito scientifico che in quello artistico: nonostante i brutti voti a scuola, ereditò dal padre la passione per l’astronomia, mentre con il fratellastro Berend condivise quella per i cristalli e i minerali. Anche la musica di Bach, così armoniosa nella sua struttura matematica, lo colpiva profondamente.
L’esperienza italiana fu molto importante, in primo luogo per il contatto con i piccoli borghi medioevali, le geometrie rinascimentali e le illusionistiche prospettive barocche. Le ardite opere dell’architetto e incisore settecentesco Giovanni Battista Piranesi ebbero senza dubbio un influsso rilevante, così come le decorazioni arabe visionate in Sicilia e all’Alhambra di Granada, molto apprezzata durante un viaggio in Spagna.
Il periodo italiano diede però vita solo a sporadici paesaggi e qualche illustrazione. Infatti, finché rimase nella Penisola, Escher fu continuamente stimolato da forme, colori, suoni, profumi; fu solo quando tornò nel nord Europa che riuscì a mettere ordine al suo grande bagaglio culturale e a manifestare uno stile veramente innovativo. Prima di tornare in patria, il breve periodo che trascorse in Belgio, tra il 1937 e il 1941, fu rilevante anche per il contatto con uno dei più importanti pittori surrealisti, vale a dire il suo coetaneo René Magritte, fra l’altro uno dei pochi artisti contemporanei che egli stimava. Numerose analogie lo legano all’artista belga, ma Escher non fu un vero surrealista: se Magritte cercava di sorprendere l’osservatore con l’impossibile, in una dimensione puramente onirica e psicoanalitica, Escher colpiva, e colpisce ancora oggi, perché la sua logica figurativa, profondamente ancorata nella scienza, rende possibile l’impossibile.
“Giorno e Notte” (1938), xilografia, 39,3 x 67,8 cm
La produzione
Tutte le opere di Escher sono tecnicamente perfette e ciascuna di esse richiedeva mesi di studio e preparazione. Dal 1935 in poi l’artista realizzò circa settanta stampe, prevalentemente litografie, vale a dire con matrice in pietra, e xilografie, ovvero con matrice in legno. Il tema onnipresente è lo studio della struttura dello spazio, affrontato in due diversi periodi: nel primo (1935-1946) egli concentra la ricerca sui concetti di simultaneità, metamorfosi e ciclicità; nel secondo (1947-1970) si dedica maggiormente alla prospettiva, alle strutture stereometriche e alle approssimazioni dell’infinito.
In questi due periodi si possono distinguere tre opere fondamentali: la prima è la celeberrima “Mano con sfera riflettente” (1935), in cui la sfera riflette anche il volto stesso dell’artista. Il reale e il virtuale si compenetrano simultaneamente, abbattendo le barriere tra l’artista e l’osservatore, ampliandone le potenzialità percettive. Emerge quindi la volontà di rappresentare una realtà moderna, complessa e multidimensionale, dove si impongono le potenzialità dello specchio, citazione di quello presente nel celebre “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di Van Eyck.
La seconda opera fondamentale, “Giorno e Notte” (1938) colpisce invece per la simmetria e la strana metamorfosi dei campi, che prendono vita sotto forma di volatili; a ben vedere, la simmetria non presenta però linee di demarcazione definite, in una sorta di distorsione spazio-temporale che riecheggia tematiche relativistiche, ancora più esplicite nella terza opera di riferimento, chiamata, per l’appunto, “Relatività” (1953). Lo spazio è disorientante, senza punti di vista univoci; vi operano ad angolo retto tre diverse prospettive, o meglio, tre campi gravitazionali, in cui si muovono alcune figure anonime; ciò che per una figura è un pavimento, per altri è una parete; sembra impossibile, ma gli astronauti hanno dimostrato che in assenza di gravità ogni superficie può essere una parete o un pavimento.
Come in ogni produzione di Escher, rappresentazioni apparentemente assurde e che contraddicono l’esperienza quotidiana, vale a dire paradossali, trovano senso se lette alla luce delle sensazionali scoperte scientifiche del ventesimo secolo.
“Relatività”, litografia (1953), 27,7 x 29,2 cm
Il significato
Per quanto visto la produzione artistica di Escher è indiscutibilmente ancorata nella razionalità. Eppure lo scopo dell’artista era quello di produrre nell’osservatore un’emozione molto importante, cioè lo stupore, o meglio, la meraviglia che si origina di fronte al disvelamento dei misteri della natura, governata da affascinanti leggi matematiche e costanti numeriche. Questo non esaurisce però il mistero che pervade le opere di Escher. Conoscendo la sua marcata attitudine “filosofico-letteraria”, è probabile che ci sia qualcosa di più.
I rapporti matematici e lo riempimento dello spazio in forme geometriche, tecnicamente detto “tassellazione”, erano quasi un’ossessione per l’artista, che tagliava perfino il formaggio in forme regolari. Questo ci ricorda il vecchio Pitagora e la sua fissazione per i numeri, ma ci rimanda anche a Parmenide, secondo cui il vuoto non esiste, non vi è spazio per un vero movimento e, quindi, tutto è immutabile; sono i nostri sensi a trarci in inganno. Questo ci riconduce al sempreverde Platone, al suo “mito della caverna”, dove di fatto si descrive un’umanità anonima schiava dell’illusione. E di spazi riflessi e illusori, che contraddicono i sensi, ce ne sono molti in Escher. Lo specchio, frequente nelle sue opere, a questo punto potrebbe configurarsi non solo come uno strumento ottico, ma anche un simbolo di conoscenza, uno strumento per andare oltre la materia.
La predilezione dell’artista per il bianco e nero potrebbe oltremodo suggerire una riflessione quasi manichea sul contrasto tra Bene e Male, un rapporto che lo ossessionava fin da ragazzo. Col passare degli anni l’atteggiamento riguardo a questo tema divenne sempre più criptico, mentre al contempo la sua fama cresceva; molti artisti cominciarono ad ispirarsi a lui, dai pittori agli stilisti, fino ad arrivare ai cineasti; è stato ad esempio fonte di ispirazione per due grandi registi, cioè Dario Argento, che lo cita esplicitamente nel suo capolavoro “Suspiria” (1977) e Cristopher Nolan, che lo ha omaggiato nel suo visionario “Inception” (2010). Escher avrebbe gradito?
[Disclaimer]
Le immagini provengono dal libro “Lo specchio magico di M. C. Escher” di Bruno Ernst (TASCHEN GmbH, 1978).
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