“Il mio nome è Charles Bronson, e per tutta la vita ho voluto essere famoso”
[Attenzione spoiler]
Cinema d’avanguardia. Sebbene rigorosamente allocato nei primi decenni del XX secolo, come diretta emanazione delle cinque principali correnti artistiche di quel periodo, ovvero Espressionismo, Cubismo, Astrattismo, Dadaismo e Surrealismo, questa forma d’arte cinematografica ha lasciato una profonda eredità, che a volte riemerge in opere di difficile comprensione e un po’ scioccanti. Si tratta di film che rifiutano i canoni tradizionali e non risultano costruiti sulla successione logica e cronologica degli eventi, ma sono perlopiù basati sull’irrazionalità di situazioni e personaggi, dove pulsioni ed emozioni trovano manifestazione più nella forza delle immagini che nello sviluppo narrativo.
La trama
Bronson tratta di un certo Michael Gordon Peterson, nato a Luton, in Inghilterra, nel 1952. Definito come uno dei più pericolosi detenuti britannici, ha ormai passato oltre quarant’anni di vita in prigione, trenta dei quali in isolamento assoluto.
Fin da giovane ha manifestato atteggiamenti aggressivi e tentativi violenti di affermazione personale. Sposatosi e divenuto padre, nel 1974, a causa di una piccola rapina ad un ufficio postale, viene condannato a sette anni di carcere. Durante la reclusione, si rende protagonista di una serie di episodi sempre più estremi, diventando celebre nell’ambiente carcerario. Nonostante le autorità lo trasferiscano di penitenziario in penitenziario, ogni tentativo di calmarlo fallisce, per cui viene internato in un ospedale psichiatrico, dal quale, per uscire, tenta di strangolare un paziente, così che viene rimandato in carcere.
Nel 1988 torna in libertà e, nell’impossibilità di rimanere in famiglia, va a vivere da un suo zio, cominciando però al contempo a frequentare combattimenti clandestini. È qui che cambia il suo nome in Charles Bronson, in omaggio al celebre attore hollywoodiano. Dopo pochi mesi, per un furto in una gioielleria, viene nuovamente arrestato, riprendendo gli atteggiamenti violenti; è proprio a questo punto che inizia ad interessarsi, a suo modo, all’Arte…
La struttura
Potrebbe essere un “biopic”, ma l’autore del film, il regista danese Nicolas Winding Refn, sovverte le convenzioni del genere biografico, sperimentando metodi e tecniche innovativi, per ottenere la decostruzione della linearità narrativa e deformare la messa in scena, improntata ad un certo iperrealismo, con venature grottesche. Una descrizione talmente sovrasatura da sembrare paradossale e bizzarra, ma tale da celare qualcosa di tragico. Citando Sir Arthur Conan Doyle, «Dal grottesco all’orrore non c’è che un passo». A sottolineare questa sensazione straniante contribuisce l’estrema attenzione per gli aspetti visivi, in particolare quelli cromatici, curati dal direttore della fotografia Larry Smith, già collaboratore di Stanley Kubrick nel suo ultimo capolavoro, “Eyes Wide Shut” (1999).
La sceneggiatura, incardinata su un’impostazione teatrale, in cui il protagonista si presenta al pubblico tramite un monologo, si articola in diversi atti, quasi avessimo di fronte una performance da teatro dell’assurdo, in cui riecheggia la voce del protagonista che accompagna lo spettatore fuori campo.
Inoltre, il film si avvale dell’impressionante e coraggiosa prova dell’attore inglese Tom Hardy, anche fisicamente all’altezza del ruolo. Il suo exploit ad Hollywood ha origine proprio con quest’opera, con il successivo coinvolgimento in produzioni di alto profilo, ad esempio i due celebri film di Christopher Nolan “Inception” (2010) e “The Dark Knight Rises” (2012). Eppure Tom Hardy non è stato scelto immediatamente dal regista, che gli avrebbe preferito la star dell’action Jason Statham: il rifiuto di quest’ultimo, a causa di alcune scene forti e di nudo integrale, ha indotto Refn a tornare sui suoi passi. Tom Hardy ha poi incontrato più volte in carcere il vero Michael Gordon Peterson, il quale si è mostrato entusiasta del progetto. Anche l’attore Charles Bronson, star di molti film western, bellici e polizieschi degli anni ‘60 e ‘70, dopo aver visto il film, ha lodato la performance dell’attore e apprezzato il lavoro.
Le citazioni
Poiché Refn è prima di tutto un cinefilo, è facile immaginare che abbia preso spunto da chissà quali produzioni minori e documentari poco conosciuti per realizzare il film. Comunque, partendo dal presupposto che Bronson è in fondo un “prison movie”, è opportuno prima di tutto citare uno dei migliori film di questo genere, ovvero “Runaway Train” (1985) di Andrej Končalovskij: il protagonista, Manny, interpretato da un grandioso Jon Voight, condivide con Bronson numerosi aspetti, dai baffi in bella mostra al mantenersi in esercizio con le flessioni; l’analogia è però incentrata soprattutto sul carattere indomito e la forza sovrumana, che li rendono, seppur in forme diverse, una sorta di manifestazione del Superuomo di Nietzsche, la cui irriducibilità a qualsiasi restrizione lega sia Manny che Bronson ad un terzo estremo personaggio cinematografico, ovvero il drugo Alex di “Arancia Meccanica” (1971). Il capolavoro di Kubrick, del resto, è citato anche nell’ambientazione inglese, nelle atmosfere “allucinate” e in un sostanziale parallelismo del destino dei protagonisti, i quali, una volta usciti dal carcere, non riescono a conformarsi alla società.
Nella scelta dei brani per la colonna sonora permane l’intenzione kubrickiana di strutturare la forma filmica attraverso gli elementi sonori, che diventano punti di riferimento per la comprensione concettuale. Un soundtrack eclettico, che spazia dalla musica classica a quella elettronica, contestualizza o decontestualizza, a seconda dei casi, le vicende, aprendo ulteriori spunti di riflessione. Così la “Marcia funebre di Sigfrido” di Wagner e il “Va Pensiero” di Verdi, già sapientemente utilizzato da Dario Argento in “Inferno” (1980), diventano rimandi alla ribellione violenta di marca ottocentesca, mentre il melodico synthpop di “Your Silent Face” dei New Order e il nostalgico synthwave di “Digital Versicolor” dei Glass Candy ci riportano agli anni ‘80. Menzione d’onore per la celebre scena in cui, nell’ospedale psichiatrico, esplode un trascinante balletto sulle note di “It’s a Sin” dei Pet Shop Boys.
Il significato
È proprio la scena della sala da ballo, ambientata in una sorta di non-luogo, a farci capire che Bronson non è un folle, anzi, forse è l’unica persona sana. Il film stesso è, in fondo, un viaggio nella mente del protagonista, una persona fondamentalmente sola, una brutale vittima della società moderna, dominata dal desiderio di successo.
L’ossessione per la fama è il principale elemento di caratterizzazione del personaggio, che trova una naturale collocazione sul palcoscenico, sia esso il teatro, la cella o il ring, quasi divertito spettatore egli stesso dei suoi assurdi eccessi. Di fronte al crepuscolo dei valori, per Bronson la violenza, sia perpetrata che subita, diventa un’esigenza, in quanto elemento imprescindibile per sentirsi vivo e costruire il proprio successo.
Eppure, ad un certo punto della sua vita, Bronson scopre, con l’aiuto di un insegnante, di amare l’Arte e di essere egli stesso un artista, riuscendo ad incanalare la sua violenta pulsione di vita non nella distruzione, ma nella creazione, e trovando in tal modo l’agognata libertà. Ispirato soprattutto da Hieronymus Bosch e Salvador Dalì, Bronson ha realizzato in carcere numerosi disegni, forti e provocatori, il cui comune denominatore è costituito dalla rappresentazione della prigionia, metafora di una vita moderna artificiale, angosciante, dominata da costrizione e ipercontrollo.
Control Box (2000), inchiostro, matita e pastello su carta, 11.6 x 8.3 pollici,
Courtesy of the Princess Headbones Gallery, 1997-2000.
Epilogo
Queste riflessioni ci conducono infine a porci delle domande sugli scopi dell’autore, quel Nicolas Winding Refn al tempo semi-sconosciuto astro nascente del cinema danese e ora regista affermato. Come ha dichiarato lo stesso Refn, la decisione di realizzare un film di questo tipo è scaturita sì dalla volontà di perseguire un’idea di cinema del tutto innovativa e anti-convenzionale, ma anche e soprattutto da una necessità fortemente personale, ovvero quella di parlare di sé, di “sfruttare” Bronson per descrivere addirittura sé stesso. Difficile a credersi, considerando il carattere tranquillo e gioviale dell’autore, ma la radice dell’agire di Bronson e di Refn è in fondo la stessa. È la “fame” di lasciare ai posteri qualcosa di sé, qualcosa di autentico.
[Disclaimer]
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