Jacques-Louis David, “La Mort de Marat” (1793), olio su tela, 165×128 cm,
Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles
Neoclassicismo. Scordiamoci atmosfere rassicuranti, ambientazioni idilliache e vaporosi soggetti mitologici, ovvero di tutti quegli elementi caratteristici del linguaggio classico, un evergreen periodicamente riesumato per esprimere l’aspirazione dell’uomo ad una vita beata. Il prefisso rivoluzionario “Neo” circoscrive la questione al tardo Settecento e definisce una corrente artistica radicale, virile, razionale, insomma molto “yang”, anche se l’aggettivo più corretto per definirla dovrebbe essere “drammatica”, perché sottende inquietudine, non quiete. Quindi, con buona pace di Winckelmann e della sua “quieta grandiosità”, il Neoclassicismo ha veramente poco di quieto e, quindi, di classico.
Jacques-Louis David, “Autoportrait” (1794), olio su tela, 81x64cm, Musée du Louvre, Paris
L’autore
Jacques-Louis David è stato il più neoclassico dei neoclassici. Un po’ quello che Mozart, nella sua maturità, è stato per la musica di fine Settecento. Infatti, anche per il compositore austriaco la drammaticità non è esplicita, cioè legata allo stravolgimento della forma, ma è sottilmente insita nell’equilibrio compositivo.
Il pittore francese, così come il genio di Salisburgo, è stato un artista ostinato e anticonformista, meno dissoluto ma egualmente fragile, costantemente impegnato a sopravvivere in un periodo storico di grandi cambiamenti. Nasce nel cuore di Parigi il 30 agosto 1748 da una famiglia appartenente alla piccola borghesia. Grazie allo zio materno, che intuisce la sua abilità nel disegno, riesce ad essere presentato al pittore ufficiale del re Luigi XV, il famoso François Boucher, fra l’altro suo lontano parente, che però, ormai anziano, lo indirizza al meno noto, ma più giovane, Joseph-Marie Vien, che sarà per lui quasi un padre.
David può così studiare all’Académie Royale, anche se non è proprio un tipo tranquillo e rimedia fra l’altro una cicatrice sul volto in seguito ad un duello. Per tre volte consecutive manca per poco il prestigioso “Prix de Rome”, cosa che lo porta sull’orlo della disperazione e lo fa gridare alla cospirazione, fino alla sospirata vittoria nel 1774. Ottiene così una borsa di studio per poter studiare a Roma, dove resta oltre quattro anni. I grandi maestri italiani del Rinascimento e del Barocco lo colpiscono profondamente, come anche le antichità classiche. Riesce così a definire uno stile veramente personale, rigoroso ed essenziale, ma anche espressivo.
Tornato in patria, nel 1781 espone la sua prima opera matura, “Belisario chiede l’elemosina”, in cui riflette sulla caducità della gloria e la decadenza del periodo storico in cui vive. L’anno successivo sposa Marguerite Charlotte Pécoul, dalla quale avrà quattro figli; grazie alla sua dote riesce ad allestire il proprio atelier, che riscuote fin da subito un grande successo e nel quale si formeranno artisti del calibro di Girodet, Gros e Ingres. Pur mal sopportato dagli ambienti accademici, riceve incarichi sempre più prestigiosi e addirittura il nuovo re Luigi XVI gli commissiona una delle sue opere più celebri, “Il giuramento degli Orazi” (1785), che paradossalmente diventerà simbolo di quei valori “repubblicani” alla base della Rivoluzione. Arriviamo così al fatidico 1789 e David si getta a capofitto nei disordini, più per poter fare tabula rasa dell’Accademia che per altro. Diviene simpatizzante delle fazioni più radicali e si salva miracolosamente dal patibolo alla caduta di Robespierre nel 1794.
Con l’avvento di Napoleone, ne diviene un entusiasta sostenitore, reputandolo la personificazione di quei valori che la Rivoluzione non era riuscita a concretizzare. Diventa suo pittore ufficiale, ma nel 1815 la disfatta dell’imperatore a Waterloo lo costringe a fuggire dalla Francia. Si stabilisce a Bruxelles, dove, ormai vecchio e disilluso, continua a dipingere, ma senza drammaticità il suo lavoro si risolve nel puro e semplice gusto classico. Muore il 29 dicembre 1825, per i postumi di un misterioso incidente: pare sia stato investito da una carrozza all’uscita di un teatro.
Jean-Baptiste Lallemand, “L’Arrestation du gouverneur de la Bastille, le 14 juillet 1789” (1790), olio su tela,
63×80 cm, Musée de la Révolution française, Vizille
Il soggetto
Jean-Paul Marat, classe 1743, non era francese, ma svizzero. Figlio di un ex frate cattolico sardo convertito al Calvinismo, mostra fin da giovane un carattere sanguigno e caparbio, che lo spinge ben presto a lasciare la tranquilla terra natia: si reca prima a Bordeaux, poi a Parigi, infine nel Regno Unito, dove rimane oltre un decennio. Qui elabora teorie filosofiche radicali e consegue la laurea in medicina a Edimburgo, frutto della sua passione per le scienze.
In questo periodo la Gran Bretagna è un paese efficiente, dinamico, in forte crescita economica; già da parecchi decenni è caratterizzata da una forma di governo costituzionale, in cui il potere del sovrano è limitato e controllato dal Parlamento. Un ambiente liberale, fertile, vivace, in cui Marat si trova a proprio agio. Eppure decide di tornare a Parigi, dove per una decina d’anni esercita la professione medica con alterna fortuna, costantemente coinvolto in futili dispute e litigi con le autorità scientifiche e filosofiche del tempo. Insomma, Marat è un attaccabrighe, con improvvisi sbalzi di umore, per di più invischiato in ambienti sovversivi.
Del resto, la Francia di questo periodo è decisamente diversa dalla Gran Bretagna. Sulla carta dovrebbe essere una monarchia assoluta, in cui il potere del sovrano non è limitato da alcun vincolo costituzionale, ma forse è meglio chiamarla monarchia “assente”, perché del re non c’è traccia da un pezzo. Non siamo più ai tempi del sovrumano Luigi XIV, il “Re Sole”, che aveva, nel bene e nel male, costruito una superpotenza. Durante il lungo regno del successore, Luigi XV, più interessato ai piaceri che ai doveri, la Francia era rimasta immobile, vedendo crescere solo il proprio debito pubblico.
Ora il giovane Luigi XVI, più devoto allo Stato ma egualmente debole, le prova tutte per colmare il deficit, ma alla fine decide di finanziare gli americani nella loro ribellione contro gli inglesi. Inevitabile che scoppi la Rivoluzione, nel 1789, quando viene alla luce lo spaventoso “buco di bilancio”, durante la convocazione degli Stati Generali. Inizialmente si tratta di una rivolta “istituzionale”, con i rappresentanti borghesi che di fatto aspirano al modello inglese, ma poi la questione si trasforma in un’insurrezione popolare, simbolicamente rappresentata dalla Presa della Bastiglia il 14 luglio 1789.
Senza un’autorità, i rivoltosi cominciano ad azzannarsi l’uno con l’altro. Marat si impone come uno dei leader della coalizione radicale dei Montagnardi, che comprende i Giacobini di Robespierre e i Cordiglieri di Danton. Si dedica alla scrittura e fonda un giornale, “L’Ami du Peuple”, appellativo che viene concesso a lui stesso per la vicinanza alle masse popolari. Vive con la compagna Simonne in condizioni di estrema sobrietà ed è sempre pronto ad aiutare i bisognosi, ma il suo estremismo lo spinge a comportamenti sempre più feroci e spietati. Con la proclamazione della Repubblica nel 1792 e la successiva decapitazione del re, cresce l’intolleranza nei confronti delle fazioni moderate, cioè Foglianti e Girondini. È proprio una ragazza girondina, Charlotte Corday, che gli sferra la fatale coltellata il 13 luglio 1793.
La “Pietà” di Michelangelo (1499), la “Deposizione Borghese” di Raffaello (1507), la “Deposizione” di Caravaggio (1604)
e “La Morte di Marat” di David (1793) a confronto
La composizione
Marat era il fulcro ideologico della Rivoluzione, David l’artista della propaganda rivoluzionaria. Impossibile che non si stimassero a vicenda. Alla morte dell’amico, David accetta quindi di buon grado la proposta della Convenzione, cioè dell’assemblea rappresentativa della neonata Repubblica, di realizzare un dipinto in memoria del tragico evento, da esporre proprio in occasione delle sedute plenarie.
David decide di non rappresentare il delitto in sé, ma la “scena del crimine”: il cadavere si trova all’interno di una vasca da bagno, in cui Marat si immergeva spesso per lenire il dolore derivante da una malattia cronica della pelle, e stringe ancora in mano il biglietto con il quale la ragazza si era falsamente presentata come bisognosa di aiuto; nell’altra mano, la penna, la nobile “arma” del giornalista, accanto alla vera arma del delitto; sulla misera scatola in legno, su cui è incisa la dedica, si trovano il calamaio e un altro biglietto, con una banconota, probabilmente destinata a qualche poveraccio. L’omicida non è rappresentato, per essere condannato all’oblio, sì, ma anche perché non è ben chiaro chi sia realmente: è la luce della ragione, che fende il fondo scuro, a richiedere che si “faccia luce”, per l’appunto, sulla vicenda, sugli eventuali complici o mandanti. Una luminosità palesemente caravaggesca, anche se qui, come detto, si tratta di una luce razionale, non divina. Curioso che David, esponente del Neoclassicismo, abbia scelto di citare il drammatico e oscuro Caravaggio, inviso ad ogni classicista che si rispetti. Ma come detto, il Neoclassicismo ha ben poco di classico.
La rappresentazione è essenziale, a partire dai pochi colori utilizzati, che sottolineano le rigorose e semplici geometrie. Inoltre, nell’opera si congiungono il realismo implacabile e violento della vicenda con la volontà di esulare dalla semplice rappresentazione fotografica, per assurgere ad un ambito simbolico, congelando la drammaticità in una dimensione atemporale, eterna. Proprio questa straordinaria fusione ha ispirato nel tempo numerosi artisti, tra cui Edward Munch e Pablo Picasso, che hanno dato interpretazioni molto personali al soggetto. Nel mondo del cinema la citazione più evidente e recente è quella fatta dal regista danese Nicolas Winding Refn in “The Neon Demon” (2016), ma precedentemente Stanley Kubrick, oltre ad aver realizzato “Barry Lyndon” (1975), ovvero il miglior affresco settecentesco di sempre, lo cita in “Full Metal Jacket” (1987).
Ma cosa rende il dipinto così scandaloso? L’indizio è il braccio cadente, altro esplicito riferimento a Caravaggio, alla sua straordinaria “Deposizione”, già citazione di Raffaello e, a ritroso, di Michelangelo. Marat diventa così per David una sorta di Cristo laico, o “Neo-Cristo”, una vittima della causa rivoluzionaria, altruista, coerente e fedele fino alla morte ai propri valori. Eppure non bisogna dimenticare che Marat era anche un demone, che non esitava a mettere a morte la gente sommariamente. Lo scandalo, però, non è tanto rintracciabile nella raffigurazione di Cristo come un rivoluzionario politico e sociale, idea già ampiamente nell’aria al tempo, ma nell’aver raffigurato un demone come un martire, o meglio, ancor più profondamente, l’aver capito che anche un demone può essere un martire.
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