Michelangelo Merisi detto il “Caravaggio”, “David con la testa di Golia”,
part. (1609-1610), olio su tela, 125 x 101 cm, Galleria Borghese, Roma
Pochi artisti nella Storia dell’Arte hanno avuto un impatto come Caravaggio. A differenza di alcuni contemporanei, come i fratelli Carracci, la sua opposizione allo stanco Manierismo di fine Cinquecento fu totale, radicandosi nella realtà, riprodotta in tutta la sua drammaticità. La vita stessa dell’artista è oscurata da un incessante tormento esistenziale, da una continua fuga da tutti e da sé stesso.
Chi fu veramente questo artista? Un ribelle, folle e depravato, come viene spesso descritto, oppure un personaggio del suo tempo, un periodo incerto e violento. Forse lo possiamo meglio descrivere come un uomo inquieto, dal carattere focoso, che reagiva in modo impulsivo ad un forte malessere interiore.
L’autoritratto dell’artista nella testa mozzata di Golia è un’immagine sconvolgente. Fu dipinto per essere recapitato a papa Paolo V tramite suo nipote Scipione Borghese e rappresenta la simbolica auto-decapitazione del pittore, desideroso di espiare la sua colpa e ottenere il perdono. Come a suo tempo cercherà di fare un altro genio irriverente, Mozart, componendo la “Clemenza di Tito”.
Antonio Campi, “Adorazione dei pastori”, part. (1575),
olio su tela, 290 × 165 cm, Santuario di Santa Maria della Croce, Crema
La vita
Michelangelo Merisi nacque a Milano il 29 settembre 1571, da una famiglia benestante originaria di Caravaggio, cittadina bergamasca al tempo parte del Ducato di Milano, durante la deleteria dominazione spagnola. Perso precocemente il padre a causa della peste, trascorse l’infanzia nel paese d’origine della famiglia, dove il nonno materno si occupò della sua formazione e, nel 1584, lo mise a bottega a Milano presso il severo pittore manierista Simone Peterzano. Qui rimase quattro anni, durante i quali assorbì le peculiarità della tradizione artistica lombardo-veneta, sobria e radicata nella natura. L’“Ultima cena” di Leonardo, la luminosità di Savoldo, Romanino, Moretto e dei fratelli Campi, così come l’importanza attribuita al colore dai maestri veneti, soprattutto Giorgione, Tiziano e Tintoretto, non lo lasciarono certamente indifferente.
Dopo la morte della madre, nel 1592 partì per Roma, probabilmente su consiglio della sua prima protettrice, la marchesa Costanza Colonna, ma per alcuni si tratterebbe già di una fuga dalla giustizia milanese. Giunse così nella Città Eterna, che aveva appena vissuto un periodo di grandi cambiamenti sotto il pontificato di Sisto V. Qui condusse per alcuni anni una vita miserabile nei luridi bassifondi della città, ammalandosi anche di malaria. Conobbe poi il cardinale Francesco Maria del Monte, uomo di cultura ed illustre mecenate, che lo mise a proprio servizio e lo introdusse negli ambienti della nobiltà romana. La fama di Caravaggio crebbe esponenzialmente e le commissioni divennero sempre più prestigiose, ma nonostante ciò egli continuò a condurre una vita dissoluta, tra bettole e postriboli, restando frequentemente coinvolto in risse e misfatti. I suoi estimatori, primo fra tutti il marchese Vincenzo Giustiniani, si prodigarono costantemente per coprire le sue malefatte, fino al 28 maggio 1606, quando Caravaggio uccise un poco di buono, tal Ranuccio Tomassoni, per futili motivi. Condannato alla pena capitale, fu costretto a fuggire da Roma.
Sotto la protezione dei Colonna, raggiunse Napoli e un anno dopo si recò a Malta, con lo scopo di diventare cavaliere dell’Ordine e ottenere così l’immunità. Anche qui però non tardò a farsi dei nemici e fuggì di nuovo, recandosi prima in Sicilia, poi tornando a Napoli. Dopo essere scampato ad un’aggressione mortale e ricevuta la notizia di una possibile grazia da parte di papa Paolo V, decise di salpare per tornare a Roma, ma una serie di imprevisti lo costrinse a fermarsi a Porto Ercole, dove, solo e derubato dei propri dipinti, morì il 18 luglio 1610, all’età di soli trentotto anni.
La sua morte rimane un mistero. C’è chi propende per l’aggravarsi di una qualche malattia, mentre altri si spingono a ritenere plausibile l’omicidio. Certo è che Caravaggio era diventato un personaggio scomodo: c’era chi lo rincorreva da Malta e chi, allo stesso tempo, non voleva rivederlo a Roma.
Michelangelo Merisi detto il “Caravaggio”, “Vocazione di San Matteo” (1599-1600),
olio su tela, 322 × 340 cm, Cappella Contarelli, Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma
Lo stile
Caravaggio non usava disegni preparatori. Un netto cambiamento rispetto al passato, che denota una notevole abilità compositiva, frutto di una creatività immediata e istintiva. Nelle sue opere le figure emergono dallo sfondo scuro grazie ad un fascio di luce, che crea i volumi, modella i corpi, evidenzia i dettagli. Non sono più gli elementi architettonici a strutturare le opere, e nemmeno gli sfondi prospettici o paesaggistici, ma soltanto la plasticità delle figure, creata dal chiaroscuro. Siamo lontani dalla luminosità uniforme di Piero della Francesca, come anche dallo sfumato leonardesco. In Caravaggio troviamo una luce radente, netta, dotata di un profondo significato simbolico: è la Salvezza, che squarcia le tenebre del Peccato, che trasforma e converte l’Umanità, come dimostra la straordinaria “Vocazione di San Matteo” della Cappella Contarelli. Non a caso il gesto di Cristo riprende quello di Dio della volta della Sistina, capolavoro di un altro grande Michelangelo della storia.
Ma c’è dell’altro. Geometrie curvilinee e conturbanti rappresentano “flussi energetici” tali da colpire e catturare l’osservatore; un coinvolgimento oltremodo sottolineato dalla dirompente “forza emotiva” che emerge dalle vicende descritte. Come per Leonardo, sembra che nei dipinti ci sia scienza, oltre che arte. A maggior ragione, gli anni a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento furono particolarmente rivoluzionari anche in ambito scientifico, dove una nuova metodologia sperimentale ed empirica si stava affermando. Gli avvenimenti descritti da Caravaggio, del resto sono concreti, tangibili e hanno come protagonisti quei personaggi comuni che il pittore vedeva quotidianamente.
Per questo si parla spesso di Caravaggio come di un “realista”. Eppure per lui l’Arte non consiste nell’osservare e riprodurre ciò che vede quanto più fedelmente possibile, cosa che sarà prerogativa degli impressionisti. Egli non è nemmeno in opposizione ai grandi maestri rinascimentali, che spesso cita, poiché egli ha compreso a fondo il loro idealismo, così come ha intuito il motivo della degenerazione della “maniera”, resa eccessivamente intellettuale e artificiosa. Caravaggio rifiuta di riprodurre un modello ideale calato dall’alto, ma ricerca un esito ideale, dal valore simbolico, partendo dal basso, dalla natura. Il valore artistico non sta più in una forma quanto più gradevole possibile, ma nella ricerca della verità, in ogni sua manifestazione, anche la più brutale e ripugnante. Il dolore e la morte entrano così prepotentemente nella rappresentazione artistica. Eppure nell’orrore non mancano lampi di bellezza sfolgorante, lontana da intenti edonistici, come ci insegna Giuditta nel celebre dipinto di Palazzo Barberini.
Non siamo ancora dinnanzi ad una vera e propria pittura barocca, che sarà in seguito creata da Rubens in forme più accessibili; tuttavia gli ingredienti fondamentali di questa forma artistica sono già presenti: il dinamismo, il coinvolgimento emotivo, la tensione spirituale, l’ossessione per la morte.
Michelangelo Merisi detto il “Caravaggio”, “Giuditta e Oloferne” (1599-1600),
olio su tela, 145 x 195 cm, Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma
L’eredità
“Nato per distruggere la pittura” fu il tremendo giudizio di Nicolas Poussin, principale rappresentante di quella corrente “classicista”, tutt’altro che drammatica, che divenne dominante nel Barocco maturo. In effetti, l’artista lombardo scavò un solco talmente profondo nell’Arte da impedire non solo un ritorno al passato, ma anche di replicare la sua stessa lezione. Ne sono testimonianza i cosiddetti “pittori caravaggeschi”, che cercarono, con modesti risultati, di imitarlo, ricorrendo ad una radicalizzazione della violenza stilistica e, in alcuni casi, addirittura comportamentale. Eppure il loro merito è quello di aver impedito la morte di questo linguaggio e di averlo diffuso un po’ ovunque in Europa. Senza questo processo, non avremmo avuto Velázquez e Rembrandt, e nemmeno opere come “La Morte di Marat” di David. Napoli, in particolare, si impose come roccaforte di questa concezione artistica estrema e reietta, che trovava terreno fertile nel “verace” ambiente partenopeo. Un’identità irriducibile, quella napoletana, evidenziata nel secolo scorso proprio da uno degli ultimi seguaci di Caravaggio, lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini. Il “realismo simbolico”, evidente ad esempio nella sua celebre pellicola “Il Vangelo Secondo Matteo”, avvicina i due artisti, ma sono soprattutto l’atteggiamento provocatorio e il percorso di vita tragico ad accumunarli. Se però in Caravaggio tutto è definito dalla luce della Fede, Pasolini, seppur spinto da personali istanze religiose, si muove in un’ottica di denuncia sociale e impegno politico estranea al pittore lombardo.
Pier Paolo Pasolini, fotogramma da “Il Vangelo Secondo Matteo” (1964)
Epilogo
Espiò Caravaggio la sua colpa? Probabilmente sì, con la sua stessa miserabile vita, la sua morte tragica, l’oblio che per secoli ha caratterizzato la sua arte e le mistificazioni che ancora oggi la accompagnano. Egli proietta nelle sue opere il proprio inconscio, le sue paure e ossessioni, la discesa negli inferi della perdizione. Un’odissea, un itinerario auto-distruttivo, ma anche un percorso di Fede autentica, che si svolge nel contesto del fervido rinnovamento spirituale promosso dalla Controriforma, partendo dalla Milano del grande riformatore san Carlo Borromeo, fino alla Roma di san Filippo Neri, vero e proprio “apostolo della strada”.
Caravaggio radicalizza questa nuova sensibilità religiosa, rappresentando in senso letterale il messaggio evangelico, rivolto agli ultimi, rivelando la presenza tangibile di Dio nell’oscurità del mondo.
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