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Pet Shop Boys. Filosofia Synth-pop

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Chris Lowe e Neil Tennant

 

Quattro canzoni, quattro città. Una sequenza che da sola basta per capire il percorso artistico del duo più famoso della musica “Synth-pop”, ovvero quel genere pop, tipico degli anni ‘80, fortemente contaminato dalla musica elettronica e dal suo strumento simbolo, il sintetizzatore.
Torniamo quindi all’estate del 1981 quando due ventenni appassionati di musica, Neil Tennant, giornalista musicale laureato in storia, e Chris Lowe, studente di architettura, si incontrano casualmente in un negozio di elettronica, a Londra, dando inizio ad un’amicizia e una collaborazione che durano ormai da quarant’anni. I due giovani cominciano a lavorare insieme, nei ritagli di tempo, ispirandosi agli album dei gruppi britannici che si stavano prepotentemente affermando nel panorama elettronico dei primi anni ‘80, come Visage (Visage, 1980), The Human League (Dare, 1981), Depeche Mode (Speak & Spell, 1981) e Ultravox (Quartet, 1982). Da due soggetti con un ampio background culturale non ci si poteva aspettare qualcosa di semplicemente orecchiabile e alla moda; in effetti, i due sono riusciti nell’impresa di creare uno stile originale, elegante e ricercato, denso di riflessioni e citazioni colte, pur senza rinunciare al ritmo e alla “leggerezza” del pop; il tutto condito da un’estetica estrosa e teatrale, ma mai volgare.

 

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Piccadilly Circus, Londra

 

West End Girls

Londra. I due ragazzi sono innamorati di una famosa area del centro chiamata West End, tanto che all’inizio del loro percorso si fanno chiamare proprio “West End”, per poi virare sul più originale “Pet Shop Boys”, probabilmente traendo ispirazione da un gruppo di amici che lavorano in un negozio di animali. È una zona viva e pulsante, ricca di teatri, musei, negozi e locali, tradizionalmente contrapposta all’East End, quartiere povero e malfamato.
È proprio nella capitale inglese che si innesca la scintilla della loro prima composizione, “West End Girls” (1984), anche se, paradossalmente, la sua nascita avviene sul suolo americano, dove Tennant si reca per intervistare un tale di nome Bobby Orlando, che diventerà il primo produttore del gruppo. La canzone viene pertanto registrata negli Stati Uniti e risulta contaminata dallo stile hip hop ivi dominante, che fra l’altro ben si addice alla tematica sociale della canzone. Infatti, nel brano, piuttosto malinconico, non c’è traccia dei tanto amati colori del West End, ma emerge la disparità sociale londinese, che si estende “ad ogni città ed ogni nazione”, diventando elemento identificativo del mondo moderno. Nel testo viene addirittura citato, seppur indirettamente, uno dei più rappresentativi figli di questa contrapposizione sociale, ovvero il leader sovietico Vladimir Lenin, il cui viaggio “dal lago di Ginevra alla stazione di Finlandia”, lo riportò in patria, nel 1917, per mettersi a capo della Rivoluzione. Riferimenti colti, insomma, a cui si aggiunge l’ispirazione, citata dallo stesso Tennant, al capolavoro “The Waste Land” (1922) del grande poeta inglese, ma di origine americana, Thomas S. Eliot, in cui la condizione umana moderna viene descritta in termini di desolazione e aridità.
Una canzone che si inserisce quindi a pieno titolo nelle sensazioni apocalittiche dominanti nel cuore degli anni ‘80, declinate in questo caso in senso politico e sociologico.

 

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Piazza San Babila, Milano

 

Paninaro

Milano. Città più alla moda non esiste. Produttiva, dinamica, ma anche desolante, così ben descritta dal celebre documentario “Milano ‘83” (parte prima e parte seconda) di Ermanno Olmi. I Pet Shop Boys vi atterrano nel 1986 per promuovere il loro primo album, “Please”, trovando, insieme alla nebbia, altre analogie con la loro amata Londra, dalle insegne luminose alle tensioni sociali. Sono decisi a far breccia nel panorama musicale italiano, dominato dalla cosiddetta “Italo-Disco”, ovvero la musica elettronica “Made in Italy” dei Righeira, Baltimora e Gazebo. Un genere abbastanza commerciale, ma che i due tutto sommato apprezzano. Comunque, nella metropoli lombarda i due restano folgorati da una subcultura giovanile, quella dei cosiddetti “Paninari”: si tratta di ragazzi borghesi, il cui appellativo deriva dall’abitudine al ritrovo nei nascenti fast food, come il “Burghy” di piazza San Babila. Vestiti griffati, colori sgargianti e uno slang ricco di neologismi inducono i Pet Shop Boys a dedicare loro addirittura una canzone, chiamata per l’appunto “Paninaro” (1986) e prodotta specificamente per il mercato italiano. Anche se i due artisti pensano di non rientrare nella categoria musicale più apprezzata da questi ragazzi, abituati ai brani più “leggeri” degli Wham! e dei Duran Duran, il brano riscuote un grande successo.
La canzone, una delle poche dei Pet Shop Boys cantata da Lowe, presenta un coro come elemento distintivo, in grado di conferire alla composizione un respiro giovanile. Permangono toni apocalittici, ma qui declinati in senso epico. I due artisti scavano nella moda dei “Paninari”, facilmente additabile a superficialità e ostentazione, identificandone l’agire in relazione ad alcune tematiche profonde (passione, amore, sesso, denaro, violenza, religione, ingiustizia e morte), quasi a voler rintracciare un elemento eroico nel loro desiderio di affermazione sociale.

 

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The Black Gate, Newcastle upon Tyne

 

Its A Sin

Newcastle upon Tyne. L’estremo baluardo settentrionale dell’Impero romano e, in seguito, della cristianità. Famosa per i cantieri navali, l’acciaio e le macchine a vapore, è una località laboriosa e tranquilla, magari non proprio una tipica città d’arte, anche se è interessante notare come abbia dato i natali a tre “monumenti” della musica, ovvero Mark Knopfler, leader dei Dire Straits, Sting, che non ha bisogno di presentazioni, ed infine al nostro Neil Tennant, voce dei Pet Shop Boys. Comunque, è a questa cittadina che è legata la canzone probabilmente più famosa del duo, vale a dire “It’s A Sin” (1987), punta di diamante del loro secondo album, “Actually”. Un brano solenne e trascinante, non a caso scelto dal grande regista danese Nicolas Winding Refn per la nota scena del ballo nel suo biopic “Bronson” (2008).
L’opera, fortemente autobiografica, trae la propria origine dalla rigida educazione ricevuta da Tennant nella St. Cuthbert’s Catholic High School, una scuola cattolica per soli ragazzi. Un’esperienza molto dura. Nel testo, il “senso di vergogna” si impone immediatamente all’ascoltatore come la chiave per capire il brano: la vergogna è un’emozione che esplicita un disagio derivante da atteggiamenti ritenuti sbagliati o inadeguati, ed è per questo intrecciata al senso di colpa, cioè alla parallela preoccupazione per il danno arrecato al prossimo; emozioni negative, ma comunque utili a riconoscere che qualcosa potrebbe non andare nel nostro comportamento; se però alla base c’è una manipolazione del concetto di “peccato” per altri fini, l’intento educativo non è proprio raggiunto. E sul significato religioso e morale di quel “peccato” che dà il titolo alla canzone si potrebbero aprire molteplici discussioni, che già numerosi artisti hanno trattato nelle proprie opere. Basti citare Giotto, Hieronymus Bosch, ma anche il regista David Fincher, che sui sette peccati capitali ha strutturato il suo thriller cult “Seven” (1995).

 

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Piazza Rossa, Mosca

 

Go West

Mosca. Dopo Roma e Costantinopoli, la culla di un nuovo cesare, detto appunto “czar”. Per tutto il Novecento è stata la capitale dell’oscuro blocco orientale. Poi la caduta del Muro di Berlino (1989) e la resa, almeno apparente, all’Occidente.
Nel 1992 i Pet Shop Boys, che come abbiamo visto fin dai tempi del loro primo singolo si interessano al rapporto tra est e ovest, realizzano una canzone che riflette il cambiamento storico a cui stanno assistendo. Il brano, dal titolo “Go West”, è poi stato incluso nel loro quinto album, “Very” (1993), quello della famosa custodia arancione, addirittura esposta al MoMA.
A parte questo, è curioso notare come quest’opera, una delle più amate dai fan, sia in realtà una cover dell’omonimo brano dei Village People del 1979. In questa canzone, il gruppo dance newyorkese, traendo spunto dal mito del “West”, auspicava una nuova e felice vita in California, ed in particolare a San Francisco, città decisamente aperta e tollerante.
Su queste basi, i Pet Shop Boys confezionano un prodotto coinvolgente e corale, introducendo anche alcuni elementi musicali dell’inno nazionale russo. Tennant e Lowe si interrogano ironicamente sulla propria epoca, caratterizzata dall’eclissi delle utopie: l’invito ad “andare verso ovest” certifica ovviamente il fallimento del Comunismo, ma allo stesso tempo ci invita a riflettere sul Capitalismo, sulle reali condizioni dell’Occidente, ed in particolare su quelle aspirazioni e opportunità che costituiscono il cosiddetto “sogno americano”, anch’esso forse un’utopia ai titoli di coda. Tematiche affini a quelle trattate, seppure in modo tutt’altro che ironico, nel capolavoro di Darren Aronofsky “Requiem for a Dream” (2000).

 

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La copertina del singolo Go West

 

Variabili e costanti

Negli anni ‘90 non si assiste solo alla frammentazione del mondo, ma anche a quella del panorama musicale, sotto la spinta di un rinnovato senso di libertà. L’album “Very”, così chiamato per essere “molto di tutto”, è stato concepito per aprire una nuova era, chiamata per l’appunto “Very-era”, caratterizzata da avveniristiche performance live, costumi post-moderni con citazioni dell’astrattismo e della pop-art, nonché dal frequente utilizzo del computer e della nascente realtà virtuale. Una strategia dettata dalla necessità di sopravvivere in un mondo iper-competitivo, che ormai comincia a ritenerli troppo pop per l’elettronica e troppo elettronici per il pop: da un lato la straordinaria fioritura della musica dance e l’“estremismo elettronico” dei nascenti gruppi techno, come i The Prodigy e i The Chemical Brothers; dall’altro i giganti del pop, Michael Jackson e Madonna; infine, la minacciosa avanzata della pervasiva subcultura “grunge”, opposta rispetto alla loro concezione artistica.
I Pet Shop Boys, comunque, sopravvivono, configurandosi come una costante in un mondo troppo mutevole, ispirando soggetti del calibro dei Daft Punk e continuando a scrivere canzoni, come testimonia il grande successo dell’album “Fundamental” (2006) e, in particolare, il brano di chiusura, “Integral”. Sentire per credere.

 

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