Giovanni Boldini, “Ritratto di Giuseppe Verdi”, 1886, part., Roma, Galleria Nazionale di Arte Moderna
L’opera è uno dei fattori chiave per capire l’Ottocento, il “secolo lungo” in cui è stato plasmato il mondo moderno. Un secolo in cui la borghesia si sostituisce all’aristocrazia, trovando nell’opera un proprio elemento identificativo. Come ci insegna il “Nabucco” di Giuseppe Verdi, le strutture musicali del passato cominciano ad essere rinnovate e perdono rigidità, verso il raggiungimento di una forma d’arte totale, caratterizzata da un estremo coinvolgimento emotivo.
L’autore
La vita di Verdi può essere sintetizzata col titolo di una sua opera, “La forza del destino”, che fu un melodramma di successo, ma dalla realizzazione alquanto travagliata. In effetti, il suo fu proprio un destino di grandezza, basato sul talento e un carattere tenace, che si dispiegò tra mille difficoltà e le vicissitudini di un periodo storico a dir poco turbolento.
Egli nacque a “Le Roncole” di Busseto, nel parmense, il 10 ottobre 1813, da una famiglia di modesta condizione: il padre gestiva un’osteria, mentre la madre lavorava in una filanda. L’evidente abilità musicale del ragazzo non lasciò indifferente l’ambizioso padre e, soprattutto, il direttore della locale società filarmonica, Antonio Barezzi, che divenne suo mecenate e suo suocero, dato che Verdi, terminati gli studi, finì per sposare proprio sua figlia Margherita. Con lei si stabilì a Milano, epicentro culturale del tempo, anche se il successo tardò ad arrivare. Anzi, tra il 1838 e il 1840 morirono per malattia sia i due figli piccoli che la moglie. Il compositore si perse d’animo e pensò di abbandonare tutto. Fu lo scrittore e avventuriero Temistocle Solera a convincerlo a ritornare sui suoi passi, mostrandogli il suo libretto del “Nabucco” (1842), che riscosse poi un enorme successo.
Gli anni successivi, che Verdi stesso definì “anni di galera”, furono caratterizzati da numerose commissioni, ritmi di lavoro estenuanti e frequenti viaggi. Il compositore trovò un po’ di riposo acquistando la tenuta di Sant’Agata, nel piacentino, ancora oggi nota come “Villa Verdi”; inoltre, in quel periodo conobbe il soprano Giuseppina Strepponi, che sposò, dopo una lunga relazione, nel 1859, al culmine di un decennio memorabile, nel quale compose i suoi capolavori, ovvero “Rigoletto” (1851), “Il Trovatore” (1853) e “La Traviata” (1853).
In seguito, la sua carriera fu impreziosita dalle opere monumentali “Don Carlos” (1867) e “Aida” (1871), la straordinaria “Messa da Requiem” (1874), dedicata ad Alessandro Manzoni, e la sua ultima opera, il “Falstaff” (1893), curiosa commedia tratta dall’amato Shakespeare. Dopo aver condotto una vecchiaia riservata, dedita soprattutto ad opere caritatevoli, Verdi si spense a Milano il 27 gennaio 1901.
Nabucodonosor, partitura per canto e piano, 1842, Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani
La composizione
“Nabucodonosor”, poi chiamato comunemente “Nabucco”, è l’opera con cui inizia l’ascesa di Verdi nel panorama operistico europeo. Fu rappresentata per la prima volta alla Scala di Milano il 9 marzo 1842.
Attraverso un dramma in quattro atti, si narra della deportazione degli Ebrei in Mesopotamia, letta alla luce dei contrastati rapporti tra i protagonisti: accanto a Nabucco, re di Babilonia, ci sono la figlia naturale Fenena e quella adottiva Abigail, oltre ad Ismaele, nipote del re degli ebrei, e al sommo sacerdote Zaccaria. Se la coppia di amanti Fenena-Ismaele risulta un po’ sottotono, lo stesso non si può dire dei due grandi leader, Nabucco e Zaccaria, ma soprattutto della terribile Abigail: la principessa guerriera è caratterizzata da una notevole potenza vocale, a sottolinearne la forza, l’ambizione e la determinazione. Senza addentrarci troppo nelle contorte vicende narrate, la conversione finale di Nabucco consente la liberazione degli Ebrei e segna, al contempo, la fine della tirannia di Abigail, che aveva usurpato il padre.
Dal punto di vista musicale, l’opera risulta ancora un po’ ancorata alle strutture che resero famosi gli illustri predecessori di Verdi, ovvero Bellini, Rossini e Donizetti. Vi si trovano comunque interessanti elementi di originalità, in relazione, ad esempio, all’ampio utilizzo degli ottoni, che diventeranno gli strumenti simbolo del tardo-romanticismo. Inoltre, lo sviluppo dell’azione è innovativo, rapido, quasi trascinante, in accordo con un respiro epico che trova nel celebre coro del “Va pensiero” un apice insuperabile: il brano traduce il lamento degli Ebrei attraverso un originale commistione di registri e sonorità, con improvvise esplosioni di violenza sonora. Il riferimento principale è il salmo 137, particolarmente drammatico e con un registro piuttosto violento; è proprio il tema della violenza ad aver ispirato, nella nostra epoca, l’innesto del “Va Pensiero” in due opere cinematografiche forti e visionarie, vale a dire “Inferno” (1980) di Dario Argento e “Bronson” (2008) di Nicolas Winding Refn. Al di là di queste citazioni, sono moltissimi coloro che nel corso del tempo si sono appropriati del brano, per farne gli usi più disparati e spesso inappropriati.
Johann Bernhard Fischer von Erlach, “Veduta dell’Antica Babilonia”, 1721, collezione privata
La vicenda storica
Valutando la questione in termini strettamente storici, dobbiamo tornare al tempo in cui Babilonia era il centro del mondo. Erede delle grandi città stato sumere Eridu, Ur e Uruk, la città fu probabilmente fondata dagli Accadi nel 2.300 a.C. e divenne famosa per l’altissima torre ivi eretta, sulla cui veridicità storica si continua a dibattere. Un primo impero babilonese fu costituito intorno al 1.800 a.C. dal celebre Hammurabi, quello della “Legge del taglione” per intenderci, mentre un secondo impero nacque dopo la parentesi assira ed ebbe il suo apice proprio col nostro Nabucco, per esteso Nabucodonosor II (634-562 a.C.). Egli fu un sovrano di grande cultura, che realizzò le grandiose mura e i celebri “giardini pensili”, ma fu prima di tutto un condottiero, impegnato a mantenere il potere in una zona, da sempre, piuttosto instabile.
La situazione nella vicina terra di Canaan, in particolare, era molto delicata. Dopo la morte di Salomone, nel 931 a.C., il regno degli Ebrei si era diviso in una parte settentrionale (Regno d’Israele) e in una parte meridionale (Regno di Giuda). La prima divenne protettorato mesopotamico già al tempo degli Assiri, mentre la seconda, più ricca e coesa, perse la sua indipendenza intorno al 600 a.C.; in seguito, una rivolta spinse Nabucodonosor II ad assediare Gerusalemme e a deportare una parte degli abitanti a Babilonia, compresi i profeti Ezechiele e Daniele. Una decina d’anni dopo, nel 587 a.C., una nuova rivolta lo spinse a marciare nuovamente su Gerusalemme e, questa volta, la città fu rasa al suolo, Tempio compreso. Ne seguì una seconda deportazione. È bene ricordare però che fu solo la popolazione cittadina ad essere deportata, mentre quella rurale rimase nelle campagne. Infine, nel 538 a.C. il re persiano Ciro II “il Grande” conquistò Babilonia e permise agli Ebrei di tornare nella propria terra.
Tali fatti trovano riscontro nelle fonti bibliche, dove la deportazione, preannunciata dal profeta Geremia, fu letta dagli Ebrei come una giusta punizione per essersi allontanati dalla parola di Dio, soprattutto ai tempi del crudele re Manasse. Di conseguenza, Nabucodonosor II viene interpretato come uno strumento di redenzione. Il contatto con la cultura mesopotamica fu oltremodo essenziale per lo sviluppo dei testi sacri ebraici, in gran parte elaborati proprio durante questo periodo.
Sebastiano de Albertis, “L’artiglieria della III divisione a San Martino”, 1887, Collezione della Fondazione Cariplo
Il significato simbolico
Molto si è detto riguardo all’interpretazione del “Nabucco” in chiave risorgimentale, o forse troppo poco. Non ci sono dubbi che il “Va pensiero”, ad esempio, divenne negli anni a seguire una sorta di inno patriottico in chiave anti-austriaca.
Ci sono comunque opinioni contrastanti: c’è chi propende per una vera e propria manipolazione dell’opera, con un travisamento delle intenzioni originali di un Verdi idealista e apolitico, che parlerebbe in termini assoluti di sentimenti e valori universali; al contrario, c’è chi reputa Verdi un fervente patriota della prima ora, e per questo legge il “Nabucco” come fosse una chiara e voluta metafora nazionalistica. La verità è probabilmente qualcosa di più complesso e per trovarla bisogna capire la personalità e il contesto culturale in cui il compositore si trovò ad operare.
In primo luogo, bisogna dire che Verdi era un romantico, e come tutti i romantici era ossessionato da sogni e ideali, che si scontravano con la realtà, alimentando un forte, ma in fondo cieco, desiderio di ribellione. Poi, dopo l’Unità d’Italia, da buon romantico, rimase nuovamente deluso dal nuovo corso degli eventi, mostrandosi insoddisfatto del nascente stato unitario. In verità, c’è qualcosa che va oltre il Romanticismo: prima di realizzare il “Nabucco”, Verdi era un compositore talentuoso, ma poco conosciuto, con alle spalle qualche piccolo successo e qualche fiasco. Poi, la svolta, grazie ad una commissione di evidente impronta patriottica, con tematiche che mai erano state prese in considerazione dal maestro. Il conseguente successo gli spalancò le porte dei salotti dell’alta società milanese, soprattutto di quello di Clara Maffei, la “femme fatale” dell’epoca, notoriamente frequentato da teste calde e intellettuali anti-austriaci. Non è un caso che il “Nabucco” (1842) sia stato seguito da una serrata sequenza di opere basate sul tema della ribellione, ovvero “I lombardi alla prima crociata” (1843), “Ernani” (1844), “Giovanna d’Arco” (1845), “Attila” (1846), “I masnadieri” (1847) e “La Battaglia di Legnano” (1849).
È quindi innegabile che Verdi, al di là delle sue posizioni politiche, divenne, volente o nolente, lo strumento di una vera e propria “mitragliatrice” ideologica, su cui fondare, prima ancora che con le armi, l’insurrezione. Una rivolta mossa non tanto da un desiderio di unità nazionale, ma dall’avversione verso l’Austria, roccaforte aristocratica e conservatrice, mal sopportata più dalle indolenti classi borghesi cittadine che dal popolo. Ma questa è un’altra storia.
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