“Self-portrait” (1930), olio su tela, 63 x 50 cm, Whitney Museum of American Art, New York
“Se potessimo esprimerlo a parole, non ci sarebbe motivo per dipingerlo”
Arte americana, questa sconosciuta. Qualcuno magari ricorda Andy Warhol e Jackson Pollock, almeno per cultura generale, ma con questi personaggi l’Arte è davvero agli sgoccioli. Il più importante artista americano del Novecento è invece un uomo sobrio e non particolarmente noto al grande pubblico. Il suo nome è Edward Hopper. Un artista di rara sensibilità e dal taglio cinematografico, così penetrante da aver colpito alcuni grandi registi, che l’hanno esplicitamente citato nelle proprie parabole sulla modernità, da Alfred Hitchcock in “Rear window” (1954) e “Psycho” (1960) fino a Darren Aronofsky in “Requiem for a Dream” (2000), passando per il nostro Dario Argento in “Profondo Rosso” (1975).
La vita
Edward Hopper nasce il 22 luglio 1882 a Nyack, un villaggio sul fiume Hudson, immerso nei boschi che circondano New York. I genitori appartengono alla media borghesia di provincia: il padre Garrett possiede un piccolo negozio di tessuti, la madre Elizabeth gestisce alcune proprietà di famiglia; entrambi sono attivi nella locale comunità Battista e hanno numerosi interessi culturali. Edward è un bambino alto, intelligente, solitario, affezionato alla sorella, Marion Louise, di due anni più vecchia; manifesta fin da giovane uno spiccato interesse per la letteratura e le arti figurative, mostrando in particolare una precoce abilità nel disegno.
Nel 1900 il ragazzo entra nella prestigiosa New York School of Arts, dove gli insegnanti lo educano all’approfondita conoscenza delle regole formali, condizione necessaria alla loro re-interpretazione. In questo periodo, il panorama artistico americano vive della timida luce riflessa di quanto avviene in Europa, ancorandosi ai propri baluardi, rappresentati soprattutto dalla grande pittura paesaggistica della Hudson River School e dalle più recenti tendenze realiste della Ashcan School. Nel 1906, Hopper, terminati gli studi, si reca a Parigi, dove vive per alcuni anni: la vivacità della Ville Lumière e lo splendido patrimonio artistico e culturale completano la sua formazione, ulteriormente arricchita da alcuni brevi viaggi nelle principali capitali europee.
Tornato in patria, si mantiene con qualche commissione, soprattutto stampe e illustrazioni. Nel 1913 il padre muore ed Edward decide di andare a vivere per conto suo nella Grande Mela. Da questo momento in poi, la sua casa-studio sarà un vecchio e scomodo appartamento a Washington Square, dove conduce una vita abitudinaria e riservata, intervallata solo dalle vacanze estive al mare, a Cape Cod.
Nel 1923 incontra per caso una sua ex-compagna dei tempi del college, Josephine Nivison, detta “Jo”, anch’essa pittrice di talento, che sposa l’anno seguente, nonostante profonde differenze caratteriali. La donna, vivace ed estroversa, sacrificherà la carriera per il marito, diventando sua modella, assistente e musa ispiratrice; nonostante il rapporto turbolento, i due rimarranno legati per la vita. Dopo aver raggiunto il successo, Edward Hopper si spegne il 15 maggio 1967. La moglie lo segue meno di un anno dopo.
“Soir Bleu” (1914), olio su tela, 91,4 x 182,9 cm, Whitney Museum of American Art, New York
La concezione artistica
Hopper ha sempre amato il disegno, fin da quando, bambino, riproduceva le imbarcazioni che risalivano l’Hudson. Il senso dell’ordine, l’importanza della forma, delle proporzioni e delle regole derivano dalla sua estrazione borghese, oltremodo accentuate dalla rigida educazione religiosa. Insomma, egli non è proprio il classico artista Bohémien, ma non per questo si adagia sulla semplice riproposizione di stili in voga per assecondare il gusto del pubblico.
Fin dagli esordi, Hopper si interessa alla realtà, costituita innanzitutto da strutture, naturali e urbane, ma anche sociali e culturali. Una realtà che non può prescindere dalle persone che la popolano, come testimoniano gli schizzi di volti e corpi, a volte caricaturali, che amava realizzare da ragazzo. Il realismo giovanile di Hopper viene alimentato dai suoi docenti newyorkesi, tra cui imprescindibile è il contributo del suo maestro prediletto Robert Henri. È però a Parigi che Hopper scopre il Realismo, quello con la R maiuscola, di Courbet e Daumier, con le loro tematiche sociali, e l’Impressionismo, di cui lo affascina il magistrale utilizzo di luce e colore; non tanto quello puro di Monet o la variante corale di Renoir, ma quello acerbo di Manet e quello intimo di Degas.
Hopper non sembra particolarmente interessato alle nascenti avanguardie e a chi gli chiederà se a Parigi abbia mai incontrato Picasso o Matisse risponderà con un “no”. In realtà, in Europa egli assorbe anche alcuni elementi delle Secessioni e del futuro Espressionismo, soprattutto ammirando le opere del suo omonimo norvegese Munch.
Il dipinto che rappresenta la summa della sua formazione è “Soir Bleu” (1914), realizzato poco dopo il ritorno in America. L’opera non solo condensa tutti i suoi studi, ma è già dotata di un’inquadratura “cinematografica” e di una certa introspezione, che saranno caratteristiche distintive della sua produzione. Il dipinto coglie il crepuscolo della luminosa Belle Époque parigina, con alcuni personaggi di varia estrazione sociale, dai tratti vagamente inquietanti, che, pur trovandosi in un luogo di ritrovo, di fatto non comunicano. Un’opera misteriosa, senza interpretazioni univoche, che purtroppo non ha avuto alcun successo ed è rimasta confinata nella soffitta di Hopper fino alla sua morte.
“Hotel Room” (1931), olio su tela, 152,4 x 166 cm, Thyssen-Bornemisza Museo Nacional, Madrid
Il Nuovo Mondo
A questo punto, Hopper immerge la lezione appresa oltreoceano nella realtà americana a lui contemporanea. Dopo il suicidio europeo nella Grande Guerra, nei “ruggenti” anni ‘20 gli Stati Uniti si apprestano a diventare la potenza egemone a livello mondiale e mostrano una crescita economica senza precedenti, accompagnata da un grande dinamismo sociale e culturale. Art Déco, Jazz e Charleston sono i simboli di un periodo ottimistico e spensierato.
È in questo clima favorevole che pone le proprie radici la società di massa, identificata soprattutto con i consumi e le innovazioni tecnologiche, con le automobili che invadono le strade e gli elettrodomestici che popolano le case. Eppure la frenesia, la velocità, il rumore della folla non compaiono nelle opere di Hopper. Le sue considerazioni vanno già oltre, riguardano ciò che non si vede, il risvolto della medaglia del “benessere”. Seguendo un approccio quasi distopico, l’artista riflette sull’identità americana, ovvero su quella civiltà sempre un passo avanti rispetto al resto del mondo, nel bene e nel male. La sua America non è un’allegra “terra promessa”, ma un ambiente freddo e semi-deserto, a rappresentare il vuoto “esistenziale” di un Paese tutto sommato giovane, passato rapidamente dalla natura selvaggia all’artificio esasperato. Il conseguente, inevitabile sradicamento, genera una vera e propria alienazione, di matrice freudiana, tale per cui l’uomo non riesce più a riconoscersi come tale.
Spesso Hopper ritrae i luoghi iconici della nascente modernità, come negozi, farmacie, distributori di benzina, uffici, bar e hotel. Uno dei suoi dipinti più rappresentativi, “Hotel Room” (1931) è proprio ambientato in una piccola stanza d’albergo. È uno scorcio, quasi un’istantanea realizzata di nascosto, di una situazione intima, di qualcosa che non si potrebbe vedere. L’ambiente è colorato, ma anonimo, illuminato da una fredda luce artificiale, che lascia in ombra il volto della ragazza, appositamente de-personalizzata. È un momento di comfort che in realtà di confortevole ha ben poco. Si percepisce la stanchezza, non solo fisica, ma “esistenziale”, e, soprattutto, la solitudine: non è più quella dolorosa del Romanticismo, ma quella angosciante delle metropoli. Se la ragazza avesse in mano uno smartphone, le nostre considerazioni non cambierebbero.
“Nighthawks” (1942), olio su tela, 76,2 × 144 cm, Art Institute of Chicago, Chicago
Iperrealismo
Hopper non si ferma al reale, ma è “più reale del reale”, cioè “iperreale”. Sebbene questa parola venga usata per indicare una specifica forma d’arte sviluppatasi negli ultimi decenni del Novecento e finalizzata a riprodurre la realtà in maniera talmente rigorosa da sembrare fotografica, le sue radici sono ben più profonde di quanto si pensi, raggiungendo addirittura la snobbata pittura accademica ottocentesca, quella di Bouguereau per intenderci. L’Iperrealismo, oggi come ieri, si interroga su cosa sia veramente “reale”, proponendosi di rappresentare la realtà non attraverso le dinamiche della percezione, ma cercando l’assoluta precisione del dettaglio. Paradossalmente, il risultato è qualcosa di più ideale che reale, ma funzionale ad estendere la capacità percettiva, incorporando nell’opera elementi tematici altrimenti non esprimibili.
Il capolavoro di Hopper, “Nighthawks” (1942), ci viene in aiuto per capire questi concetti. Realizzato dopo numerosi disegni preparatori, il dipinto è talmente nitido e dettagliato da andare oltre quella che sarebbe la naturale percezione notturna di un ipotetico osservatore. Proprio per questo, l’introspezione ne risulta amplificata. Il vetro, ad esempio, dovrebbe essere elemento di trasparenza, di apertura, ed invece qui, proprio per la sua straordinaria resa, sembra rinchiudere i personaggi, quasi fossero organismi “in vitro” da analizzare, aumentando al contempo la sensazione di silenzio e soffocamento. Una forte luce artificiale illumina il “diner”, un locale informale dove si può consumare fino a notte fonda, posto in una strada urbana deserta, senza alcun elemento naturale. All’interno si trovano alcune persone immobili, i “nottambuli” a cui fa riferimento il titolo [“Nighthawks”, letteralmente “falchi della notte”, nello slang viene utilizzato con questo significato, ndr]. Essi non interagiscono, né comunicano. È il ritratto di una società di esseri piccoli, fragili, soli, che hanno alterato i normali ritmi naturali e che vivono i rapporti, soprattutto di coppia, in modo sempre più artificiale.
Nelle opere di Hopper, in definitiva, emerge una modernità complessa e problematica, i cui paradossi non sono così dissimili da quelli indagati, nello stesso periodo, dalla scienza o da artisti come Escher, ma qui trattati in chiave essenzialmente sociologica. Per citare Goethe, un poeta molto amato da Hopper: “Laddove c’è molta luce, l’ombra è più nera”.
[Disclaimer]
Le immagini provengono dal libro “Edward Hopper, Transformation of the Real” di Rolf G. Renner (TASCHEN GmbH, 2021).
Si tratta di immagini protette da copyright e sono qui mostrate a puro scopo esemplificativo, senza alcuna finalità commerciale.