“Tu credi di dire la verità, e, invece, dici soltanto la tua versione della verità…”
[Attenzione spoiler]
“Iconico”, ovvero relativo ad un’immagine che colpisce l’osservatore, imponendosi nell’immaginario collettivo come simbolo.
“Profondo Rosso” è uno di quei film “iconici” che hanno segnato un’epoca e vengono apprezzati ancora oggi, al di là delle imperfezioni. Non a caso ebbe un successo di pubblico clamoroso e rimane probabilmente il più amato dagli ammiratori di Dario Argento. La critica invece lo stroncò. Eppure tra gli estimatori del film vi furono un certo Alfred Hitchcock e un altro tale di nome William Friedkin. Insomma, non proprio due nomi comuni.
La trama
La vicenda si svolge a Roma, dove il musicista jazz Marc Daly, che ha appena terminato di provare col suo gruppo, incontra il suo amico Carlo, pianista alcolizzato, nella piazzetta antistante casa. Dopo aver sentito delle urla, Marc assiste al brutale omicidio di Helga, una sensitiva che abita nel suo stesso palazzo, e si precipita nel suo appartamento, senza possibilità di salvarla. La medium, quella sera, durante una conferenza sul paranormale tenuta dal prof. Giordani, aveva percepito la presenza in sala di un killer.
Marc comincia ad indagare per conto suo, aiutato dalla giornalista Gianna Brezzi, con la quale inizia una relazione. Dopo aver conosciuto la madre di Carlo, un’ex-attrice, Marc riceve minacce di morte dal misterioso killer, che lascia come unico indizio la registrazione di una nenia infantile. Il pianista, con l’aiuto del prof. Giordani, scopre una leggenda basata su tale melodia e rintraccia l’autrice di un saggio in merito, Amanda, che però viene individuata ed eliminata dal killer. Il prof. Giordani, recatosi sulla scena del crimine, scopre il nome dell’assassino, ma anch’egli viene ucciso.
Marc riesce comunque a scovare la villa a cui si riferisce la leggenda, ormai disabitata, e vi trova nascosto in una parete un disegno infantile. In seguito, Marc e Gianna scoprono che il disegno proviene dell’archivio della scuola; i due vi si recano e capiscono che l’autore è Carlo, il quale, giunto sul posto, cerca di ucciderli, ma, costretto alla fuga dalla polizia, muore in un terribile incidente. Marc a questo punto capisce però che non è Carlo l’autore dei delitti, ma sua madre: la donna cerca di ucciderlo, ma muore nella colluttazione finale.
Le radici
“Profondo Rosso” (1975) si configura come punto nevralgico della produzione di Dario Argento. Infatti, esso mantiene la struttura del “giallo” che caratterizza i tre film precedenti, cioè la cosiddetta “trilogia degli animali” (1970-1971), ma la integra con l’innesto di elementi tematici e stilistici innovativi, che troveranno in seguito piena maturazione. È bene ricordare che il titolo avrebbe dovuto essere “La tigre dai denti a sciabola”, a sottolineare la continuità con detta trilogia, ma poi fu scelto il ben più calzante “Profondo Rosso”.
In dettaglio, il regista riproduce la struttura concettuale del primo film della trilogia, “L’uccello dalle piume di cristallo”, ma riprende alcuni elementi dei successivi “Il gatto a nove code” e “Quattro mosche di velluto grigio”. Per fare un paio di esempi, si può facilmente riconoscere che il personaggio principale è un artista straniero trapiantato in Italia, tutto sommato ordinario e un po’ sprovveduto, proprio come nel primo film; allo stesso modo, qui ritroviamo la malattia mentale dell’assassino e la figura di un terribile genitore, ovvero quelle tematiche “hitchcockiane” già indagate nel terzo capitolo.
Il risultato è comunque un film del tutto nuovo, in cui si nota una decisa e ulteriore virata verso un registro violento, ma anche verso atmosfere meno realistiche. Il tutto con il marchio di fabbrica di Dario Argento, che, come in tutti i suoi film, ci conduce alla risoluzione dell’enigma più con l’intuizione che con la deduzione.
Gli aspetti tecnici
Il film è stato scritto da Dario Argento insieme a Bernardino Zapponi, il quale ha avuto il merito di rendere molto concreta la paura presente nel film. Ad esempio, per sua stessa ammissione, i brutali omicidi fanno riferimento a tagli, schegge, urti, scottature, che rimandano a sensazioni comuni, che tutti provano. Dario Argento ha contribuito invece ad elevare il realismo dello script ad una dimensione più onirica e simbolica. Eppure, la sceneggiatura risente di una certa macchinosità, con alcuni cali di tensione, anche perché fu definita, almeno in parte, “in itinere”. A ciò concorre anche la celebre colonna sonora, originariamente affidata a Giorgio Gaslini: accanto agli inquietanti brani composti o riarrangiati dal gruppo “rock prog” dei Goblin, altre tracce originali, più improntate al jazz, risultano poco efficaci. Nulla da eccepire sugli effetti speciali, di ottimo livello per il tempo, curati da Carlo Rambaldi, che pochi anni dopo otterrà il Premio Oscar, insieme all’artista Hans Ruedi Giger, per “Alien” (1979), capolavoro di Ridley Scott.
Per quanto riguarda il cast, buona l’interpretazione di David Hemmings, nella parte del protagonista Marc, e di Daria Nicolodi, in quella della sua compare Gianna, anche se la teatralità dell’interpretazione di quest’ultima, futura moglie e collaboratrice del regista, risulta a tratti un po’ eccessiva. Sono invece eccellenti le performance di Gabriele Lavia, nel ruolo di Carlo, e di Clara Calamai in quello di sua madre. È interessante notare che quest’ultima interpreta di fatto sé stessa, essendo realmente a quel tempo un’attrice di successo, ma ormai dimenticata; inoltre, forse non tutti sanno che Clara Calamai fu anche una delle prime attrici italiane a mostrare il seno nudo in un film, durante gli anni ‘40. Sono proprio questi elementi meta-cinematografici e trasgressivi che introducono un ulteriore livello interpretativo.
Meta-narrazioni
A ben vedere gli scenari sono piuttosto irreali, come testimonia l’oscura piazzetta, teatro del primo omicidio; in essa lo scenografo Giuseppe Bassan costruisce un fittizio “Blue Bar”, con tanto di comparse praticamente immobili, ispirato al celebre dipinto “Nighthawks” (1942) dell’iperrealista Edward Hopper. Tale piazzetta è il prototipo di un non-luogo sospeso in uno spazio-tempo indefinibile e diventa simbolo di solitudine e spaesamento. In essa i due amici Marc e Carlo, uno “borghese”, l’altro “proletario”, si confrontano sul senso della propria vita e, quasi a rasentare situazioni da teatro dell’assurdo, comunicano con difficoltà. Il mondo moderno è infatti separato in contrapposizioni sociali e politiche, nonché caratterizzato dal relativismo e dalla difficoltà di comunicazione. In altre scene, al contrario, non è il silenzio “assordante”, ma il caos a sottolineare l’incomunicabilità, come quando Marc, in un bar, cerca di telefonare a Gianna presso la sede del suo giornale. Assurdità che si ripetono laddove compare la polizia, con personaggi al limite della caricatura. Ciò sottolinea la follia, la mancanza di senso, che frequentemente caratterizzano la modernità, nella quale compaiono nuove figure femminili, incarnate dall’emancipata giornalista Gianna, ed emerge una diversa visione della sessualità, rappresentata dall’omosessualità di Carlo.
“Profondo Rosso” è, quindi, un film che va al di là del cinema, che riflette e si interroga sul cinema stesso. Non è un caso che il regista metta alla prova le capacità percettive dello spettatore, rivelando l’assassino fin dall’inizio, seppur per una frazione di secondo; allo stesso modo, non è un caso che le mani del killer, coperte da guanti neri, siano in realtà le mani del regista: la distanza fra l’autore, l’attore e lo spettatore viene così annullata.
Epilogo
La modernità dovrebbe aver debellato la violenza, ma non è così. Ce ne accorgiamo già nella violenza “quotidiana” dei titoli di testa, inframmezzati dal coltello insanguinato ai piedi di un bambino, e ne abbiamo conferma quando assistiamo al brutale omicidio della sensitiva Helga. Il suo appartamento, dove di fatto tutto comincia e tutto finisce, è un meandro della mente, popolato da simboli e figure che il regista approfondirà nei successivi “Suspiria” (1977) e “Inferno” (1980). Ed è proprio qui che, sedimentato nel subconscio, si trova la chiave del mistero: una verità rivelata attraverso uno specchio.
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