Balthasar Denner, “Ritratto di Georg Friedrich Händel” (1728), olio su tela, 74,9 x 62,6 cm,
National Portrait Gallery, Londra
Felicità e tristezza sono le emozioni dominanti nel Settecento: la felicità di una rinnovata libertà espressiva e la tristezza di non trovare un vero orizzonte a questa libertà. Riconosciamo queste emozioni basilari nelle varie manifestazioni artistiche di questo periodo e, a maggior ragione, nella musica. Ma quale musica identifica il Settecento? Una domanda non così scontata, la cui risposta si trova all’interno di quel ricchissimo calderone chiamato “Musica Barocca”, che accoglie diverse generazioni di artisti, accumunati da strutture elaborate e da un virtuosismo di notevole impatto emotivo. La locuzione è però impropria, dato che il vero Barocco, almeno nelle arti figurative, si sviluppa nel Seicento e non nel Settecento, dove passa il testimone al Rococò. Restiamo quindi un po’ disorientati. Per capire il Settecento bisogna circoscrivere il discorso e seguire le orme di un gigante, di nome Georg Friedrich Händel, nel suo appassionante percorso di vita.
Bernardo Bellotto, “Dresda, veduta del vecchio fossato dello Zwinger dall’Orangerie verso la città” (1752),
olio su tela, 133 x 235 cm, Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda
Germania
Händel nacque ad Halle, al tempo chiamata per esteso Halle an der Saale, il 23 febbraio 1685. La cittadina tedesca, di tradizione luterana, era da poco stata annessa al Margraviato di Brandeburgo, nucleo della futura Prussia, pur rientrando nell’area storicamente nota come Sassonia. Per questo motivo il compositore, durante i suoi viaggi, fu soprannominato il “Sassone”, o meglio, il “caro Sassone”, dato il suo atteggiamento composto ed educato. Il padre, già piuttosto anziano, era barbiere di corte, anche se al tempo tale figura era in realtà una sorta di medico personale, o perlomeno di infermiere. Un uomo abbastanza importante, insomma, che avrebbe voluto per il figlio una prestigiosa carriera da magistrato. Il giovane, però, spinto da un’insaziabile passione per la musica, di legge non ne voleva sapere, e riuscì a farsi impartire alcune fondamentali lezioni da Friedrich Zachow, noto organista locale, fino alla provvidenziale dipartita del padre. Il talento fu subito evidente e pertanto il ragazzo cominciò precocemente le sue peregrinazioni, prima nelle vicine Lipsia e Dresda, poi a Berlino, nel 1702, dove colpì la coltissima regina di Prussia Sofia Carlotta, ed infine ad Amburgo, dove rimase dal 1703 al 1706.
La sua formazione avvenne in tutti luoghi fortemente intrisi di cultura e, purtroppo, tutti noti per essere stati poi rasi al suolo durante la Seconda Guerra Mondiale. Se Dresda, sotto il principe elettore Augusto il Forte, si stava imponendo come una vera e propria capitale artistica, tale da guadagnarsi il titolo di “Firenze sull’Elba”, anche le più flebili Lipsia e Berlino erano città frementi. Amburgo, la metropoli del nord, era già da tempo il punto di riferimento per la musica tedesca: un ambiente moderno, dinamico e cosmopolita, in cui, nel 1678, era stato costruito il primo Teatro dell’Opera pubblico fuori dall’Italia.
In questo periodo Händel entrò in contatto con alcuni dei più importanti compositori tedeschi del tempo, come la vecchia leggenda Dietrich Buxtehude e il giovane astro nascente Georg Philipp Telemann, con il quale instaurò un profondo rapporto di amicizia. Fu proprio quest’ultimo ad introdurlo al repertorio operistico, che in futuro divenne un vero e proprio cavallo di battaglia di Händel. Nella sua carriera, infatti, egli arrivò a comporre oltre 40 opere, cosa da far impallidire anche il nostro Giuseppe Verdi. Seppure in modo acerbo, il suo stile fresco e sontuoso è già percepibile nella prima opera, l’“Almira” (1705), di cui si può citare, ad esempio, l’aria “Proverai di che fiere saette”.
Qualche dissidio con gli altri compositori presenti nella città anseatica, le alterne fortune delle sue prime composizioni e, soprattutto, la necessità di potenziare le proprie competenze musicali spinsero Händel a lasciare la Germania ed intraprendere un viaggio che cambiò la sua vita.
Francesco Guardi, “Piazza San Marco verso la Basilica” (1765), olio su tela, 72,5 x 119 cm,
National Gallery, Londra
Italia
Che Amburgo fosse una città frizzante non c’è dubbio, ma l’Italia era un’altra cosa. Il Belpaese, da sempre riferimento imprescindibile di ogni manifestazione artistica, stava vivendo la sua ultima, scoppiettante, stagione da protagonista. Händel vi giunse nel 1706, probabilmente su invito di un nobile fiorentino che aveva conosciuto ad Amburgo, vale a dire Gian Gastone, granduca di Toscana, l’ultimo appartenente alla prestigiosa famiglia Medici. Rimase però a Firenze solo pochi mesi, preferendo stabilirsi a Roma, attratto dall’ambiente particolarmente stimolante e dallo strano miscuglio di sacro e profano. Nonostante qualche tempo prima l’austero papa Innocenzo XI avesse proibito l’opera, la vivacità sprizzava da ogni altra espressione artistica e la città mostrava già quell’aspetto “da salotto” che avrebbe mantenuto fino ai tempi di David e Goethe. Nella Città Eterna il “caro Sassone” non tardò a farsi conoscere come insuperabile interprete all’organo ed entrò in contatto con i più noti compositori italiani del tempo, come Alessandro Scarlatti e Arcangelo Corelli; tali maestri ebbero un’importanza cruciale nella formazione di Händel, soprattutto nel campo vocale, contribuendo ad aggiungere ricchezza, varietà e flessibilità al suo stile. Inoltre, egli frequentò l’Accademia dell’Arcadia, condividendone gli ideali classicisti, ed intrattenne proficui rapporti con illustri mecenati, dal marchese Francesco Maria Ruspoli ai cardinali Carlo Colonna, Benedetto Pamphilj e Pietro Ottoboni. In particolare, si distinse nella composizione di numerose cantate, si dice addirittura un centinaio, per la maggior parte di argomento mitologico-letterario; tra queste si ricorda ad esempio “Aminta e Fillide” (1708), di cui si cita il gioioso duetto finale “Per abbatter il rigore d’un crudel”. Si dedicò anche alla composizione di oratori, spesso interpretati come “surrogati” dell’opera; tra questi si cita “La Resurrezione” (1708), che fece scalpore per l’assegnazione della parte di Maria Maddalena ad una donna: dopo un ammonimento formale di papa Clemente XI, il ruolo fu assegnato, come consuetudine, ad un castrato.
Trascorsa una parentesi di qualche mese a Napoli, altra città di grande ricchezza musicale, che di lì a poco avrebbe sfornato talenti del calibro di Giovan Battista Pergolesi, Giovanni Paisiello e Domenico Cimarosa, il “caro Sassone” si diresse a Venezia, il più importante centro operistico e teatrale del mondo. La città lagunare, patria di mostri sacri come Tomaso Albinoni, Benedetto Marcello e, soprattutto, Antonio Vivaldi, rappresentava al contempo il culmine della ricchezza e della decadenza del Settecento italiano: con un peso politico sempre più flebile, Venezia era ormai interpretata come la capitale dell’arte, ma anche la mecca del divertimento sfrenato e del gioco d’azzardo. Fu proprio qui che Händel riscosse un successo clamoroso con l’opera “Agrippina” (1709), sold out per ben 27 serate consecutive, della quale si cita, a titolo d’esempio, la celebre aria “L’alma mia fra le tempeste”. Raggiunto l’apice, Händel capì che ora poteva spiccare il volo.
Giovanni Antonio Canal detto “il Canaletto”, “Veduta di Londra dall’arco del ponte di Westminster” (1747),
olio su tela, 57 x 95 cm, collezione privata
Inghilterra
Händel non era un dissoluto, anzi, lo si ricorda come un tipo tranquillo. Non poteva quindi trovarsi a proprio agio in Laguna. La possibilità di trasferirsi in Inghilterra, paese dinamico, liberale e con grandi prospettive di crescita, fu facilitata dal buon rapporto col principe elettore di Hannover, che di lì a poco sarebbe asceso al trono inglese col nome di Giorgio I. Nonostante un’iniziale difficoltà ad essere accettato dagli ambienti più conservatori, ancora legati al nome del grande compositore locale Henry Purcell, seppe guadagnarsi rapidamente una stima talmente grande da vedersi erigere una statua mentre era ancora in vita. Il compositore sfruttò inizialmente la grande popolarità dell’opera italiana in Inghilterra, sfornando immediatamente il “Rinaldo” (1711), tratto dalla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, che contiene la sua aria più struggente, “Lascia ch’io pianga”. Seguirono altre opere di successo e diverse composizioni strumentali, tra cui le più famose sono le tre suite note come “Musica sull’acqua” (1717), che furono eseguite su una chiatta del Tamigi per il Re e i suoi ospiti, in un contesto gioioso e suggestivo.
A parte alcune visite sul continente, rimase in Inghilterra per tutta la vita. Nel 1727, dopo aver ottenuto la cittadinanza britannica, fu incaricato di scrivere quattro inni per l’incoronazione di re Giorgio II: uno di questi, “Zadok the Priest”, incarna a tal punto l’essenza della regalità che da allora viene suonato ad ogni cerimonia di incoronazione britannica, durante l’unzione del sovrano. Altra composizione solenne è la dolente “Sarabanda per clavicembalo” (1733), parte della Suite in re minore n. 4, nota soprattutto per la potente versione sinfonica utilizzata nel film “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick (1975).
Il declino della moda dell’opera italiana in Inghilterra spinse Händel a reinventarsi, a cercare nuove vie, ad esempio nel genere dell’oratorio: il “Messiah” scritto in meno di un mese nell’estate del 1741, non solo si presenta come il suo capolavoro, ma è divenuto nel tempo l’oratorio per eccellenza, con incastonato il celeberrimo coro “Hallelujah”, il quale, nonostante venga ormai riprodotto in innumerevoli versioni, non ha perso la sua inimitabile grandezza. Accolto fin da subito con entusiasmo in Irlanda, il “Messiah” ebbe un riscontro più tiepido in Inghilterra, ma seppe conquistare nel tempo il pubblico inglese, consacrando Händel come una vera rock star: alle prove generali della “Royal Fireworks Music” (1749), composta per i festeggiamenti, con tanto di spettacolari fuochi d’artificio, per la fine della Guerra di Successione Austriaca, si precipitarono oltre diecimila persone in delirio, causando ingorghi e disordini. Eppure la fama non alterò la proverbiale riservatezza di Händel. Uomo di grande fermezza, a volte eccessiva, arrivò a rimproverare duramente il re Giorgio II per essere arrivato in ritardo ad un suo concerto. Sappiamo che si impegnava appena possibile in opere caritatevoli, collezionava dipinti e si abbandonava facilmente alle tentazioni della gola. Purtroppo, i dolorosi postumi di un incidente in carrozza e l’insorgere della cecità lo costrinsero a trascorrere poco felicemente l’ultima parte della sua vita, fino alla morte, avvenuta a Londra nel 1759.
Epilogo
Per Beethoven è stato il più grande di sempre. L’affermazione sembra un po’ esagerata, soprattutto se consideriamo un altro gigante suo coetaneo, vale a dire un certo Johann Sebastian Bach. Sappiamo che entrambi si stimavano reciprocamente, pur senza conoscersi di persona. La chiave per uscire dal dilemma è evitare di fare paragoni, considerando la profonda differenza che intercorre tra i due compositori: Bach rimase in patria praticamente tutta la vita, dedicandosi alla famiglia, ai numerosi figli, senza godere di particolare celebrità; Händel, al contrario, fu un uomo di mondo, che viaggiò molto, divenne famosissimo e non si sposò, consacrandosi solo alla Musica. Anche il campo d’azione è diverso: Bach esprime l’aspetto “trascendente” della musica, in senso assoluto, fuori dal tempo, mentre Händel rappresenta quello “immanente”, radicato nel suo tempo. Per usare una metafora cinematografica, possiamo immaginare la musica di Bach come un film in bianco e nero di Ingmar Bergman, mentre quella di Händel come una moderna pellicola a colori, quasi alla “Fumo di Londra” di Alberto Sordi, in cui troviamo mescolati grande felicità e intima tristezza.
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